Il migrante non esiste, non è una categoria: esistono le singole persone
Conversazione sul sentimento del mondo con Andrea Costa, leader di Baobab Experience, per l’inaugurazione di un Welcome Center per i migranti alla Tiburtina.
Quand’era ragazzino, i genitori fornivano alla scuola una dichiarazione, che certificava che avesse bisogno di uscire dalla classe, almeno una volta durante l’ora, e muoversi nei corridoi. Muoversi, fare qualcosa, non stare fermo lì. Soprattutto da quando erano tornati a Roma da Manhattan, e lui si sentiva ammattire: cos’era, questo paese dove le persone erano solo bianche, e non c’era nemmeno un ristorante cinese? Lui che era abituato, ragazzino italiano negli anni Settanta, a buttarsi a giocare verso la Tredicesima o Dodicesima di Manhattan, e a ritrovarsi l’unico, coi suoi capelli rossi, a somigliare all’idea di un americano: intorno a lui orientali, neri, latinoamericani, una mescolanza di colori e di accenti e di odori.
Era abituato a bagnarsi nel mondo. Ha radici qui il suo naturale impulso all’amicizia coi migranti di passaggio.
I miei – mia madre ricercatrice biologa alla NY University, mio padre giornalista a Rai International – mi avevano portato piccolissimo a conoscere l’Africa, l’Asia, l’Europa. Avevo trascorso tre mesi a Cuba, dove mia madre aveva avviato un Dipartimento di Biologia Cellulare; andavo con loro alle manifestazioni contro la lontana guerra nel Vietnam; a casa nostra, venivano ospitati intellettuali in fuga dalle dittature sudamericane; le conversazioni sulle vicende del mondo erano pane quotidiano a tavola. Catapultato nella Roma dei primi anni Ottanta, io mi sentivo mancare l’aria. Già a 14 anni sono partito per il primo Interrail.