Podcast true crime: come il male di persone in carne ed ossa diventa un lurido intrattenimento
“Vedo così tanto feticismo. Non voglio essere un’altra ragazza che ridacchia di un omicidio”: così esordisce uno dei personaggi del nuovo romanzo di Rebecca Makkai, di cui leggo sul NY di questa settimana. Nel mirino, la passione per i podcast true crime, il loro clamore offensivo, la frenesia delle accuse, il gusto di evocare mostri da disprezzare, la predatorietà dei giornalisti e l’avidità con cui il pubblico consuma queste storie: in definitiva, il potenziale di trasformare il male di persone in carne ed ossa in intrattenimento.
In “I have some some questions for you” , qualcosa a metà fra il true crime e il romanzo di formazione, la ungaro statunitense Makkai (di cui sono tradotti in Italia due altri romanzi) mette in scena una docente che, mentre tiene un corso di podcasting agli studenti, viene travolta dai ricordi dell’omicidio della sua compagna di stanza quando lei stessa era una studentessa di quella università. Girando intorno alla natura sfuggente della verità, la scivolosità della memoria, l’opacità delle persone, la velocità con cui le vittime diventano proprietà pubblica e agli indagati viene rubata per sempre la vita, la Makkai secondo il New Yorker riesce a tracciare la distanza fra ciò che la scrittura poliziesca è stata e ciò che potrebbe essere, adottando un approccio “quadrangolare”: cioè non inseguendo tanto la scia del sangue quanto descrivendo ad esempio la stanchezza del processo o l’indegnità degli interrogatori di polizia…