Per stomaci di lettori forti
“È innamorato di sua sorella. Peggio. E’ innamorato di sua sorella e sua sorella è morta.” Da un romanzo che inizia con questa promessa ti aspetti personaggi viscerali e una trama appassionante. Invece no. I due protagonisti sono esseri umani improbabili, ma questo all’autore non pare interessare. Così come, dopo aver preparato le basi per un thriller (un passeggero è scomparso dalla carlinga di un aereo precipitato in mare, classico delitto in una stanza chiusa) l’autore serenamente disdegna anche la trama.
Forse solo il cosiddetto lettore forte è in grado di godere ognuna delle 400 pagine de “Il Passeggero”, l’ultimo romanzo di C. McCarthy, arrivato dopo 16 anni di silenzio e alla soglia dei suoi novant’anni. Una storia disordinata e spiazzante, con mille questioni sospese. Dicono che lo scrittore abbia iniziato a stenderlo negli anni Ottanta, e rivisitato poi in maniera frammentaria nel tempo. Un libro senza guardrail, un invito a perdersi, ha notato qualcuno. Un libro che cammina, e non sempre in equilibrio, sulla corda sottile fra il profondo e l’assurdo, e che manda continuamente a sbattere il lettore in oggetti oscuri.
Coloriti personaggi (avatar dell’autore) sono impegnati in dialoghi socratici sulla selleria d’epoca, la terminologia geologica, la botanica del deserto, gli intrighi oscuri della storia americana o la meccanica quantistica. (McCarthy ha frequentato assiduamente negli ultimi decenni l’Istituto di Ricerca Teorica Santa Fé, che studia i sistemi adattivi complessi, fisici, computazionali, biologici e sociali: ma ahimè, non il suo lettore…)
Resta il godimento dello stile, il grandissimo godimento dello stile.
Il New Yorker ha notato che la scrittura di McCarthy si gonfia e si sgonfia, ma fra l’afflato e deflato viene spesso a mancare l’ossigeno.
Faccio un esempio di afflatus in questo libro: “Proteso nel vento salmastro con le mani nelle tasche e i vestiti sbatacchianti (…) arrancava ammantato e bofonchiante nell’arido valico di qualche anonima landa desolata dove il mare gelido e siderale ribolle e si frange e le tempeste arrivano ululanti da quel nero e ondulante alkaest.”
Un esempio di deflatus: “Scese dall’auto e spense la luce e chiuse il portellone e bloccò il lucchetto e aprì il bagagliaio e ci ficcò le due borse e chiuse il bagagliaio e diede gas un paio di volte.”
Bellissimi anche i dialoghi ai tavolini dei bar: banali, folli, sciatti, sorprendenti, come sono i dialoghi ai tavolini dei bar.
Ma tutto contribuisce ad avanzare verso la domanda se la realtà sia conoscibile. Soprattutto, se sia conoscibile attraverso il linguaggio verbale o non piuttosto attraverso il linguaggio divino della matematica.
E a questo punto avanza anche la domanda del lettore medio, che la ‘coda’ de “Il Passeggero” (non penso si potrà dire ‘sequel’, in assenza di trama), ancora non uscita in Italia, probabilmente non risolverà: come definire questo McCarthy? riesce questa sua opera a spostare il canone del romanzo?