“L’equivalente morale della guerra”, ovvero il coraggio dello scrittore nella ricerca di un senso
Di D. F. Wallace conosciamo dettagli biografici poco edificanti. Chi lo frequentava lo ricorda come un amico egoista, uno scrittore narciso e un fidanzato manipolativo e manesco.
Eppure, per una decina d’anni, fra il successo di “Infinite Jest” (1996) e il definitivo approdo al suicidio (2008), in quell’America reaganiana nel profondo, Wallace si era macerato in un progetto da lui chiamato “the long thing”. Migliaia di appunti, caratteri abbozzati, frammenti di testo (il postumo “The Pale King”), da cui il New Yorker trae oggi la certezza che negli ultimi anni di vita Wallace avrebbe ambito a scrivere con quella piana franchezza data dalla passione morale di uno scrittore come Dostoevskij. Esattamente il contrario della prosa complessa in maniera abnorme che aveva invece sempre prodotto, e che così bene rispecchiava i contorcimenti della mente americana, infarcita di gergo burocratico, slogan pubblicitari e pseudoconcetti di autocoscienza postmoderna.
Wallace dichiarava che con “the long thing” stava provando a capire, per lui e per il lettore, “quello che era utile e quello che non lo era” in letteratura. Cosa fosse degno dell’attenzione dello scrittore e cosa no. Un tentativo di cui non vedeva la fine, che ricadeva sempre nella frustrazione del vuoto, ma che lo fa legittimamente inserire nel movimento della “New Sincerity”. Uno fra i tanti, ma l’unico, secondo il NY, a suggerire che la vita civile e politica americana avrebbe potuto offrire il giusto contenitore di quella nuova sincerità.
Addirittura il NY sostiene che l’influenza più significativa di Wallace sugli scrittori successivi non sarebbe venuta dalle sue innovazioni stilistiche, quanto dall’insistenza sul fatto che la letteratura dovesse mirare a uno scopo morale. Che le sue parole sarebbero alla base dell’impegno degli artisti in Occupy Wall Street o contro il razzismo o il trumpismo. E, più in generale, della consapevolezza che il loro lavoro può e deve incidere nella società.
Ma l’incapacità di Wallace di trovare questo scopo morale, istituzioni non corrotte, una causa degna che riuscisse a prevalere sul suo scetticismo, anticiperebbe anche la volubilità delle passioni pubbliche del decennio successivo, quell’oscillare di artisti e intellettuali americani tra evangelismo utopico e antipolitica ironica.
Se Wallace credeva che gli scrittori dovessero perseguire l’“equivalente morale della guerra” (James) nella società, sentiva anche che tutte le loro guerre avrebbero portato alla stessa disillusione e cinismo di quelle militari.
I testi postumi di Wallace come un’allegoria del tentativo di scrivere una narrativa appassionatamente morale per una società americana priva della capacità, e forse anche della volontà, di esprimere un giudizio condiviso su ciò che è utile e ciò che non lo è.