Le parole devono essere come scheletri ripuliti
“Trasportiamo dentro una coperta gli scheletri in soffitta, stendiamo le ossa sulla paglia per farle asciugare. Dopo, per mesi, levighiamo, verniciamo il cranio e le ossa, poi ricostruiamo pazientemente gli scheletri di nostra Madre e del neonato, attaccando le ossa tra di loro con dei sottilissimi fili di ferro. Quando il nostro lavoro è terminato, attacchiamo lo scheletro di nostra Madre a una trave della soffitta e attacchiamo quello del neonato al suo collo.” (da ‘Il grande quaderno’ di Agota Kristof).
Le frasi della Kristóf sono proprio come quei due scheletri, memorie di una tristezza indescrivibile, meticolosamente ripulite dalle tracce di sangue e dalla cartilagine: così mirabilmente suggerisce il New Yorker in un articolo nell’ultimo numero di giugno.
Chiunque ami Agota Kristof sa già che la pulizia estrema della sua scrittura – quella sintassi il più delle volte composta semplicemente di soggetto, verbo, complemento oggetto, punto – nasce dal fatto che scrive in una lingua straniera. Per le vicende della storia (occupazione del suo paese, poi fuga dallo stalinismo), Kristof fu più volte privata del potere di esprimersi nella propria lingua madre. Il francese, in cui ha scritto tutte le sue opere, lo imparò a fatica e tardi, quando approdò definitivamente in Svizzera. E come prima il tedesco e il russo, rimase sempre per lei una “lingua nemica”.
Ma è interessante il ruolo che lei attribuisce alla “lingua nemica”: “Uso il francese rispetto all’ungherese” spiegò una volta, “anche per creare una distanza dai miei terrori”. Quella distanza inevitabile in un atto di traduzione, che mette in mostra nel suo farsi tutti gli slittamenti linguistici tra una storia prima vissuta, poi ricordata, infine raccontata. Una distanza che, in definitiva, mettendo in luce lo slittamento tra la lingua e la vita, diventa anche un modo per proteggere la verità.
“Per decidere se è Bene o Non Bene, abbiamo una regola molto semplice: il tema deve essere vero”, si dicono i due giovanissimi protagonisti de Il grande quaderno. “Dobbiamo descrivere ciò che vediamo, ciò che sentiamo, ciò che facciamo. Ad esempio, è proibito scrivere: ‘Nonna somiglia a una strega’; ma è permesso scrivere: ‘La gente chiama Nonna la Strega’. E più oltre: “Le parole che definiscono i sentimenti sono molto vaghe; è meglio evitare il loro impiego e attenersi alla descrizione degli oggetti, degli esseri umani e di se stessi, vale a dire alla descrizione fedele dei fatti”.
Un’agghiacciante precisione che consapevolmente la Kristof consumava, per proteggere se stessa e il lettore, e tentare, se possibile, di non oscurare mai con le parole la verità.