Il traduttore ha da essere un ninja o l’amante?
“I traduttori sono come i ninja. Se ti accorgi di loro non va bene.” Questa frase attribuita senza contesto allo scrittore israeliano Etgar Keret ha fatto imbestialire Jennifer Croft, traduttrice americana da più lingue. La Croft, che nel 2018 ha condiviso, pari merito, con la Nobel Olga Tokarczuk, il ‘Man Booker International Prize’, è tornata a chiedere che il traduttore smetta di essere invisibile e ottenga finalmente più royalties e il suo nome (sempre) in copertina.
Non è un segreto infatti che una buona traduzione faccia il successo o meno di un libro all’estero.
Personalmente sono molto grata al mio traduttore in inglese Alastair McEwen, che ha reso talmente bene i miei testi letterari nella sua lingua (non a caso la sua traduzione venne citata nel mondo anglosassone fra le migliori di quell’anno) da produrre l’effetto di farmeli “vedere” per la prima volta, e allo stesso tempo riconoscerli subito come miei. Uno “svelamento”, che certamente aveva alla base un lavoro di esplorazione e ricerca che solo chi altri lavora con le parole, come lo scrittore, può capire quanta fatica e dedizione comporti, oltre che talento. (Certamente devo essere grata a tutti i miei traduttori, ma non sono in grado di leggere altre lingue)
Italo Calvino nel suo saggio “Tradurre è il vero modo di leggere un testo” notava che la traduzione richiede “qualche tipo di miracolo” dal momento che la letteratura “lavora proprio sul margine intraducibile di ogni linguaggio”. In maniera molto più pittoresca si espresse Gesualdo Bufalino: “Il traduttore è con evidenza l’unico autentico lettore di un testo. Certo più d’ogni critico, forse più dello stesso autore. Poiché d’un testo il critico è solamente il corteggiatore volante, l’autore il padre e marito, mentre il traduttore è l’amante.”