Il pezzetto marcio della torta americana
“Prima di tutto sono nato. C’era una discreta folla ad assistere all’evento e questo è tutto quello che hanno fatto: il grosso del lavoro è toccato a me.” Se sentivamo nostalgia dell’incipit sulla “infanzia schifa” del giovane Holden, ecco la voce di Demon Copperhead, che in quel “il grosso del lavoro è toccato a me” prefigura subito il tornado della sua infanzia e la sua capacità di resilienza, fra autentica innocenza e già nauseato cinismo.
Non conoscevo Barbara Kingsolver e scegliere nei giorni scorsi in libreria il suo “Demon Copperhead” è stato un colpo di fortuna. Una narrazione insieme esilarante e straziante. E, definitivamente, un romanzo politico: l’autrice non teme di navigare fra i rischi mortali dell’arte militante e produce alla fine un romanzo capace di intrattenere, commuovere e al tempo stesso invocare una riforma sociale.
Demon Copperhead (cioè Demonio Testarossa) è un David Copperfield che parla con la voce del giovane Holden e lo slang slabbrato del sud di Huckeleberry Finn. E come David Copperfield, anche la sua narrazione in prima persona inizia con la sua nascita; anche lui è già orfano di padre quando nasce; anche lui ha una madre debole e un patrigno spietato; quando la madre muore, è affidato ai servizi sociali. L’autrice paga un tributo completo a Dickens, anche nei nomi di altri personaggi: ad esempio i Peggottys diventano i gentili Peggots, e il viscido Uriah Heep è un altrettanto viscido U-Haul Pyles.
Il libro disegna un quadro della povertà contemporanea nel sud rurale degli Appalachi, Virginia, regione espropriata e sfruttata dall’economia estrattiva del carbone e poi dalle coltivazioni tossiche del tabacco. Denuncia le carenze dell’istruzione pubblica americana, dell’assistenza sanitaria e dei servizi sociali per l’infanzia. Ma il bersaglio principale è la Purdue Pharma, produttrice dell’Oxycodone, responsabile della cosiddetta ‘epidemia degli oppioidi’, piaga sociale degli Stati Uniti.
In questo scenario il giovane Demon, caduto anch’egli nella dipendenza, si definisce “il pezzetto marcio della torta americana che tutti avrebbero voluto semplicemente far sparire”. Ma il libro è anche un canto d’amore verso le comunità rurali, le loro tradizioni, le reti spontanee di supporto. E come ogni buona letteratura militante “non copia la vita, la respinge”, come dice un insegnante a Demon, quando cerca di fargli capire che lo studio della Storia è la chiave di comprensione della sua vicenda personale.
Il libro conta 650 pagine nell’edizione italiana. Forse 200 pagine in meno avrebbero giovato, perché alla fine la voce narrante si sfilaccia, perde la freschezza che aveva mantenuto anche nei momenti più bui, quasi si perde.
Ma per tanti versi Demon Copperhead è un feuilleton, non a caso l’autrice studia minuziosamente e ricalca la struttura seriale dei romanzi di Dickens. È una struttura programmata per avvincere e il suo prolungarsi è un dono a quel lettore che non vorrebbe più lasciare i suoi personaggi e quei luoghi.