Il New Yorker addita il filo che lega “Menzogna e sortilegio” all'”Amica geniale”
“Menzogna e sortilegio”, quel consapevole ‘pastiche’ ottocentesco con cui Elsa Morante, tirandosi fuori dal neorealismo militante, riuscì ad adombrare la volgarità della dittatura e degli ambienti in cui aveva allignato, era stato finora pubblicato negli Stati Uniti solo in una versione mutilata. Ora ne esce finalmente la versione integrale, e il critico del New Yorker coglie l’occasione per tracciare un parallelo fra la rappresentazione che fa la Ferrante della vita nei rioni di Napoli e la descrizione della Morante dello squallore dei protagonisti di “Menzogna e sortilegio”, dei loro vestiti stracciati contrapposti a soprammobili vistosi: in entrambe le storie, sono evidenti il fascino di un surrogato del lusso in condizioni di privazione materiale, e gli effetti sociali ed emotivi della penuria cronica.
Il New Yorker definisce tout-court la Ferrante ‘figlia’ della Morante (e l’assonanza dei due nomi in effetti forse non è casuale). La Ferrante stessa ha dichiarato a suo tempo che “Menzogna e sortilegio” è stato “il libro grazie al quale ho scoperto che una storia interamente femminile – desideri e idee e sentimenti esclusivamente femminili – poteva essere avvincente e, allo stesso tempo, avere un grande valore letterario”.
Il NY ipotizza che anche il mitico isolamento della Ferrante debba qualcosa alla Morante, la quale s’era sempre opposta alle letture biografiche del suo lavoro. La Morante insisteva ad esempio sul fatto che “la vita privata di uno scrittore è pettegolezzo”; e lasciò pochi scritti personali, quasi a sventare preventivamente qualsiasi incursione o contaminazione della critica con il suo privato. “Per quanto mi riguarda, non voglio essere considerata una persona viva”, disse.
Ma non negava affatto la presenza di elementi biografici nei suoi romanzi, anzi: ”Nei libri” dichiarò anche, “i fatti hanno sempre un travestimento, conscio o inconscio: ma quel travestimento è la loro verità.”
Questo però getta una luce differente sul destino cui Elisa, la protagonista di “Menzogna e sortilegio”, non riesce a sottrarsi. Infatti, da una parte il romanzo vuole dimostrare che il rifugiarsi nella finzione, come antidoto a una realtà insoddisfacente, è una strategia psicologica che ha conseguenze personali e anche politiche (la dittatura) gravi. Ma la fantasia è qualcosa di imprescindibile per la letteratura. “Diventare devoti e discepoli dell’inganno! Fissare ogni pensiero e ogni conoscenza sulla menzogna! . . . Questa era la mia esistenza!”, si lamenta Elisa nelle pagine iniziali del libro.
La finzione non è la costrizione dalla quale nessun romanziere può mai liberarsi?