Le nuove terre della pubblicità
Editore: Meltemi
Collana: Universale Meltemi
Data uscita: 04 maggio 2005
Pagine: 239
Questo libro è un viaggio nelle terre di frontiera del marketing e della pubblicità, come l’edge marketing e le professioni del cool hunter e del cult searcher, i più recenti studi sul neuro-marketing, la gestione della marca in un ambiente anarchico come il web, i mezzi del guerrilla advertising e suoi rapporti con la controcomunicazione o l’avanguardia artistica.
Il volume, arricchito da tre interviste a un famoso regista – Mimmo Calopresti – al responsabile della comunicazione di una grande azienda – Mariano Zumbo – e a un noto artista – Paolo Canevari – traccia le coordinate del futuro nell’universo pubblicitario, ormai strettamente connesso a tutti gli altri territori della comunicazione.
NON SERVE A NIENTE FARE I “PAESAGGINI”
Conversazione con Mimmo Calopresti regista, autore, attore sulla creatività, le sue espressioni, le sue conseguenze.
Estratto da “Le nuove terre della pubblicità”, report parziale di uno degli incontri dei miei studenti di ‘Teorie e tecniche del linguaggio pubblicitario’, Università ‘La Sapienza’ Roma, con artisti di vari campi.
Gabriella Ambrosio – Mimmo Calopresti, regista, autore, attore di film che intrattengono, emozionano, cambiano dentro. Secondo te, cos’è la creatività, in che cosa consiste un salto creativo? Quando e in che maniera nasce qualcosa di nuovo, in grado di costruire e di continuare a lavorare nel tempo dentro lo spettatore?
E ancora: la creatività nasce dal caos o nasce dalla disciplina? È qualcosa di naïf oppure è frutto dell’esperienza?
Direi di cominciare da queste domande, e piano piano arrivare a toccare un tema fondamentale per tutti noi che lavoriamo nei campi della comunicazione: quello della responsabilità sociale nella produzione di nuovi valori.
Mimmo Calopresti – È molto difficile costruire discorsi intorno a qualcosa di così impalpabile, così poco scientifico, così poco riconoscibile come la creatività.
Ma se penso ad esempio al cinema, mi accorgo che, come spettatore, i registi e i film che amo di più sono i registi e i film incompiuti, cioè quelli che lasciano spazio a qualcosa che deve ancora succedere, che va al di là della loro capacità di controllo.
Come ha detto Spielberg quando è venuto in Italia ai David di Donatello: “Voi in Italia siete contenti perché portate avanti il cinema personale”. C’è questa bella differenza fra il cinema europeo e quello americano. Che nel cinema americano esiste il cinema di serie B, quello chiamato di genere, e i grandi autori, che sono molto pochi e molto tecnici. Spielberg stesso è un grande regista ma molto tecnico. Uno invece che fa il cinema in Europa è un autore. Dentro il cinema d’autore ci sono delle imperfezioni molto forti, ma il suo grande fascino è proprio questo, che lascia spazio a qualcosa che non è controllato. Sono film con molte imperfezioni di linguaggio e di tempi, ma che lasciano uno spazio emozionale molto forte.
Ambrosio – Qualcosa che consente anche a chi riceve il messaggio il suo spazio di creatività. Lo spettatore cioè continua a creare senso, a partire dal punto in cui è arrivato l’autore.
Calopresti – Sì. La differenza fra il cinema europeo e quello americano è appunto questa, che il primo, controllando meno lo spettatore, gli dà più possibilità di interagire con quello che succede nello schermo. Secondo me il film ideale è un film in cui lo spettatore e il film hanno un rapporto, nel senso che lo spettatore capisce cosa stanno facendo o pensando i personaggi del film, ma fa anche un discorso intimo con se stesso: cosa penso di questo, cosa voglio di questo, quali emozioni può provocarmi… Secondo me questo è un modo di fare cinema democratico, in cui lo spettatore è profondamente coinvolto. Il cinema americano ha un’idea forte, che è quella di importi il messaggio. Questo tipo di espressione lascia in me fondamentalmente freddezza: è troppo forte, troppo sopra di me, troppo controllata al di fuori di me. Poi ci sono degli autori bravissimi nel farlo, che non mi sento di mettere in discussione, però, come spettatore, tutte le volte che mi sento imporre qualcosa mi dà fastidio. Se uno è uno spettatore critico non accetta di essere uno spettatore passivo, né quando va al cinema, né quando guarda la televisione, né quando per strada guarda i manifesti pubblicitari.
Ambrosio – Dunque tu non accetti di ricevere un messaggio in maniera passiva, per te la creatività è qualcosa che, dopo essere stata espressa dall’autore, continua a circolare e a produrre pensiero.
Calopresti – Esatto. La grandezza del cinema e di altre arti si compone, io credo, dentro l’individuo. Pur pensando che sia importante il rapporto collettivo con gli spettatori, non dimentico mai che non esistono gruppi ma esistono persone, cioè esistono Giovanni, Francesco, Anna… quella persona lì, che ha tutto il diritto di esistere nel rapporto con quello che gli propongo.
La televisione è abituata a fare il discorso dello share dell’audience, idealizzando un certo tipo di pubblico oppure un altro. E nelle case di distribuzione cinematografica, si studiano linee di tendenza assolutamente inutili. Ci sono film che registrano un grandissimo successo, allora le case cinematografiche pensano che basti ripetere lo stesso tipo di film per avere lo stesso successo e invece questo non accade quasi mai. Per fortuna c’è sempre uno spazio per la creatività, e la cosa che ci fa andare incontro alla creatività è l’ignoto, il mistero, quello che non sappiamo ancora. È questa la sfida secondo me da accettare nel lavoro creativo.
Chi lavora con l’arte, oggi più che mai, e intendo anche chi fa pubblicità, cioè chi lavora in un settore creativo, lavora su insicurezze. Noi possiamo fare tutte le analisi e le ricerche che vogliamo, però lavoriamo sempre su insicurezze
Studente 1– Secondo voi, quanto la fiducia in sé stessi è un elemento fondante nel processo creativo?
Calopresti – Questa è un’altra domanda difficile, e io posso parlare solo per esperienza. Oggi in Italia fare un film è come mettere in piedi una piccola industria per un anno, una struttura economica molto forte, con problemi di mercato, di responsabilità, di occupazione, un’operazione difficile… insomma per avviarla tu devi avere sicuramente fiducia in te stesso. Lo stesso discorso immagino che si possa fare per gli investimenti in pubblicità.
Ambrosio – Sì per quanto riguarda l’azienda, occorre senza dubbio da parte sua molta fiducia quando si scommette su un’idea nuova. Ma per quanto riguarda il creativo, più che di fiducia in se stesso, non credi che possiamo parlare di capacità di entrare in contatto a un certo punto con il proprio io più profondo? Quello che ti porta poi a tirar fuori cose che hai dentro e neanche sapevi di avere? Può essere questo il senso della fiducia in sé stessi, quello di lasciarsi a un certo punto andare all’immaginazione senza esercitare un controllo, una censura, un pudore?
Calopresti – Sì, penso che la psicanalisi da questo punto di vista sia una possibile risposta a quello che stai cercando. Dico una parola che in analisi si usa spesso: il “rapporto con la realtà”. Cioè quello che vedi tu, quello che passa attraverso la tua sensibilità. Perché puoi fare questo mestiere solo se sei presuntuoso? Perché tu pretendi, devi pretendere, che tutto passi attraverso di te. Questa è la tua intenzione, questa è la tua capacità.
Ambrosio – Quando dici che la realtà passa attraverso di te, che viene filtrata da te, devi però sempre ricordare che poi deve essere comunicabile, se no non vai da nessuna parte. Abbiamo ad esempio a un certo punto parlato di artisti che fanno i “paesaggini”…
Calopresti – È vero, a me piacciono i paesaggi di Van Gogh che non sono certo “paesaggini”… Il cinema racconta i paesaggi, tutto quello che uno vede intorno a sé, però dà anche la possibilità di raccontare un altro paesaggio, che è il paesaggio interiore, quello che sta dentro le persone.
Studente 2 – Vorrei esprimermi anch’io riguardo la convinzione che la creatività sia collegata alla fiducia in se stessi. Vorrei aprire un discorso sull’insicurezza come visione differente del mondo.
Calopresti – Io dubito che questa sia la chiave. Può essere una delle chiavi, può essere la tua, può essere quella che permette a te di esprimerti, ma non può essere valida per tutti, non può diventare la teoria di tutti.
Chi fa il lavoro che fate voi qui in questo corso, di ricerca, deve avere il coraggio di sapere che non sarà semplice trovare una risposta. Chi fa il lavoro di ricerca deve avere il coraggio di sapere, il coraggio di provare, e il coraggio di avere un risultato su cui farsi giudicare. Quello che c’è prima del risultato, sarà la mia sofferenza, sarà la mia insonnia… insomma, qualcosa che è solo mio.
Ambrosio – Ritorniamo al discorso di che cosa vuol dire creatività e produzione di nuovo senso. E sulla responsabilità che questo comporta, perché ogni nuovo significato veicola nuovi valori.
Calopresti – Come hai premesso tu, alla fine di questo discorso sulla creatività c’è questo di importante: che qualche volta devi fare i conti con la morale, devi fare i conti con il senso di responsabilità, e lo devi fare perché altrimenti crei disastri, perché le vite delle persone sono importanti e non sono manipolabili. Più sei responsabile, meno hai il coraggio di osare. Bisogna avere rispetto per sé prima di tutto e poi per gli altri.
Bisogna cominciare prima con un rispetto profondo di sé: questa è la cosa più importante che posso dire di aver imparato facendo questo lavoro.